Che l’Islanda sia un sogno a portata di mano è chiaro, ma se oltre a ciò si pensa che sia anche il paradiso degli amanti del trekking e delle escursioni all’aria aperta, allora questa terra raggiunge un valore ineguagliabile. Quindi se state sognando si viaggiare in terre selvagge tra vulcani, canyon e fiumi mozzafiato, quest’isola potrebbe fare proprio al caso vostro! Con ghiacciai e cascate emozionanti, sorgenti termali come geyser e laghi bollenti, vulcani attivi, distese di lava e montagne innevate, l’Islanda offre da subito un’immersione totale in paesaggi incontaminati e sperduti. E con poco meno di due ore di volo (a prezzi attualmente abbordabili), si può gustare il fascino di un paese dove la natura è padrona indiscussa e i paesaggi sono assolutamente meravigliosi.
DI CHE SI TRATTA?
Il sentiero di Laugavegur è una delle esperienze più suggestive vivibili nell’arco della propria vita.
Si tratta di un cammino lungo circa 70/80 km (impegnativo ma non proibitivo), completabile in tre o cinque giorni d’ogni stagione. Anche se il periodo che va da Giugno ad Agosto resta il migliore. Tutttavia bisogna sempre tenere presente che in Islanda ogni stagione è speciale, e che repentini mutamenti atmosferici (quali; pioggia, neve e raffiche di vento) sono sempre all’ordine del giorno, anche durante le giornate estive…
Une delle caratteristiche che rendono imperdibile questo cammino è sicuramente l’atmosfera magica e irripetibile che offre : ogni escursionista assiste dal primo all’ultimo secondo a paesaggi mozzafiato e panorami incredibili, ma soprattutto varissimi. Infatti salendo in altitudine, si possono ammirare imponenti ghiacciai con gradazioni di colori che sfumano dal trasparente al bianco e dall’azzurro al nero. Proseguendo si puà camminare sulla cima di un vero e proprio vulcano godendo di un panorama più unico che raro. Infine scendendo in pianura si gode della vista di enormi vallate, deserti variopinti, canyon, rocce multicolore e suggestivi fiumi. Insomma questo è il percorso più conosciuto e amato in Islanda ed è considerato da molti che lo hanno percorso uno dei trekking più belli al mondo!
Diario di Viaggio
“Ero stremato, a mala pena mi reggevo in piedi, ma ridevo a crepapelle.
Questo era il mio stato d’animo non appena ho approcciato la scalinata di Skogafoss, una delle più famose ed anche turistiche cascate islandesi.
Ero arrivato alla fine, avevo concluso il cammino per intero, ed ero una delle persone più felici al mondo.
Appoggiato il piede sull’ultimo scalino, un brivido mi attraversò la schiena assieme ad un senso di tristezza che mi tolse il fiato.
Un nodo alla gola che si trasformò in pianto, ero felice ed al contempo malinconico.
Avevo appena terminato quell’esperienza ed avrei voluto immediatamente rifarla infinite volte”
Pietro d’Arca
A questo punto vi chiederete che tipo di esperienza è il Laugavegur e perché dovrebbe farvi venir voglia di ripeterla all’infinito, ma andiamo con ordine…
Mi chiamo Pietro e da qualche anno faccio la guida sui ghiacciai islandesi. In particolare all’interno del Parco Nazionale di Vatnajökull. Dal mio arrivo in Islanda avevo sempre sentito parlare del Laugavegur. Oltre alla sua spettacolarità mi era stato esplicitamente detto che si trattava di un vero e proprio “life changing”: una di quelle esperienze che va fatta almeno una volta nella vita perché affrontandola si cambia per sempre il proprio modo di vedere la vita. Questo concetto si é presto trasformato in sfida, o meglio in un “invito”, che a metà luglio 2019 mi portò a chiedere quattro gioni di pausa lavorativa. Preparai zaino, sacco a pelo, tenda e bussola. Salutai turisti e ghiacciai (che per qualche giorno avrebbero fatto a meno di me) e mi diressi verso la stazione dei bus che portano a Landmannalaugar. Presi il primo, anche se più che un bus assomigliava ad uno di quei catorci islandesi riconvertiti in 4×4 che non permettono ai passeggeri nemmeno di gustarsi uno yogurt senza ridursi come bambini alle prime armi con le posate. Da lì avrei impiegato più o meno due ore per raggiungere il campo base da dove iniziai il trail. Era notte fonda e mi trovavo in un tipico campo base di montagna con bandierine del mondo appese ovunque, dove i viaggiatori si accampavano la sera per poi ripartire il mattino seguente. Personalmente lo ritenevo inutile: avevo in corpo un’abbondante colazione e ventiquattr’ore di luce davanti, perché sprecare l’illuminazione del sole che in quel periodo non tramonta mai?
Non contento divorai anche il mio bel panino con frittata preparato ad hoc il giorno prima. Sapevo di aver bisogno di tanta energia. Mentre lo addentavo, guardandomi attorno, faticavo a credere di trovarmi ancora sul pianeta terra. Quello che vedevo assomigliava di più a Marte, deserti di sabbia facevano da valle a montagne di varie sfumature, dal verde al rosso fino al grigio e per finire una meravigliosa pozza d’acqua calda fungeva da area relax per i viaggiatori stanchi (giusto per non farsi mancare nulla).
Ad un tratto una signora canadese si avvicinò a me
mentre guardavo meravigliato il paesaggio e mi domandò se mi fossi incamminato
a breve. “Certo”, risposi sorridendo. A quel punto si interessò più
nel detttaglio alla mia organizzazione e mi domandò se poteva affiancarmi per
un pezzo in modo da “tenerci d’occhio a vicenda”. In caso di necessità ci
saremmo potuti aiutare reciprocamente, disse. La mia risposta fu ovviamente
positiva e da quel momento iniziammo il percoso insieme.
“Erano i primi passi di un viaggio che sarebbe durato settantacinque chilometri in piena autonomia.
Perché per percorrere questo trekking bisogna trasportare il proprio cibo, i sacchi a pelo e tutto quello che serve durante il tragitto.
I rifugi che si incontrano sul sentiero offrono solo il posto letto e l’uso della cucina, in questo modo si vive appieno l’esperienza.”
Anche se ero stato avvisato, non avevo ancora idea delle condizioni meteorologiche che avrei affrontato. I miei amici mi avevano avvertito che sarebbe stato inutile guardare le previsioni, perché quella parte dell’Islanda è nota per essere perennemente nell’occhio del ciclone: piogge torrenziali e venti polari sono all’ordine del giorno, eppure io mi sentivo pronto a tutto.
Primo giorno
La prima parte del tracciato fu in salita, passai da quattrocento m.s.l.m. (N.d.r. Metri sul livello del mare) a circa mille e cento.
Come potete ben immaginare percepii un forte crollo della temperatura. Dopo circa tre ore di cammino arrivai a Hrafntinnusker, detto anche il rifugio più sperduto dell’intera Islanda, che già di per sè é un paese remoto, quindi immaginatevi dove mi trovavo. Arrivato, mi resi subito conto che c’erano un sacco di viaggiatori intenti a piantare le proprie tende per passare la notte, mentre io ero deciso a proseguire per rifugio successivo. Colsi comunque l’occasione per guardarmi intorno: mi sedetti su un grosso sasso e osservai la situazione; ero immerso in una gigantesca colata lavica, tutto intorno il paesaggio era in bianco e nero. Il nero della lava solidificata ed il bianco della neve perenne, ormai sporca per il retaggio invernale. Tutto aveva un fantastico equilibrio, nonostante osservavo colori ai quali non ero abituato. Prima di rendermi conto che dovevo rimettermi in cammino mi dedicai ad un breve shooting fotografico, poi ripartii. Mi sentivo più sereno rispetto all’inizio e sapevo che il secondo tratto mi avrebbe riportato ad una altitudine meno elevata. Quella sensazione di benessere ed eccitazione era bellissima ed io avanzavo sentendomi il padrone del mondo. Eppure questa sensazione durò ben poco perché un fortissimo acquazzone, tipico del luogo, si riverso sui miei passi. Indossai rapidamente una giacca anti-pioggia di cui andavo fierissimo (l’avevo comprata in Sicilia in un negozio di fiducia che me l’aveva venduta come la protezione anti-pioggia “più resistente del pianeta”, ma probabilmente non l’avevano testata in Islanda). In effetti mi ritrovai immediatamente fradicio, eppure avevo un obiettivo da raggiungere. E nonostante la fatica iniziasse a farsi sentire mi sentivo motivato dalla speranza che presto avrei gustato una birra nel prossimo rifugio. Tale pensiero fù un ottimo stimolo per superare il disagio, la pesantezza degli abiti bagnati, la stanchezza e anche il freddo. Avanzavo rapidamente ma il mio passo presto interrotto dal primo ostacolo del percorso: dovevo attraversare un fiume…
Qualcuno potrebbe immaginare che sia banale attraversare un torrente di soli 10 metri di larghezza, ma vi garantisco che essere zuppi con lo zaino in spalla e ritrovarsi in acque provenienti da un ghiacciaio, dieci metri sembrano due chilometri. Trattenni fiato e sconforto, indossai i sandali, raccolsi tutte le forze e via, più veloce che potevo! Iniziai a percorrere quei dieci metri che mi separavano dal traguardo, sotto lo sguardo incredulo di altri viaggiatori che, al contrario, stavano fermi a guardare il corso dell’acqua. Cercai frettolosamente il punto dove le acque erano più basse e saltando da un masso all’altro, mi ritrovai finalmente sull’altra sponda. Avevo completamente perso la sensibilità ai piedi, ma il secondo rifugio, Alftavatn, era ormai vicinissimo, quindi non persi tempo e a passo celere arrivai a destinazione. Ero tamente esauto che raccolsi le ultime energie soltanto per montare la tenda, pioveva ancora a dirotto, ma con passare delle ore la pioggia si calmò. Nel silenzio che mi circondava mi vennero in mente le parole di uno dei miei mentori: “dopo una giornata di pioggia incessante non c’è niente di meglio di un pasto caldo”; tolsi dallo zaino il fornello che avevo con me ed iniziai a scaldare la pasta che avevo portato.
Finalmente sazio, la voglia di quella birra che tanto avevo sognato e che mi aveva aiutato a raggiungere più velocemente il rifugio.
Secondo giorno
Il secondo giorno di marcia prevedeva l’attraversamento di due fiumi ma, memore dell’esperienza appena vissuta mi sentivo esperto e pronto a tutto. Ed in effetti andai molto più spedito del giorno precedente. Durante il cammino mi ritrovai immerso in una grande distesa di colata lavica circondato da montagne verdissime. Un paesaggio così insolito, meritava qualche foto nonostante avessi fretta di raggiungere il nuovo rifugio.
Arrivai all’ora di pranzo ma ero ancora distante quindici chilometri dalla meta del giorno, ovvero Langhidalur. Malgrado il mio camminare veloce ero in ritardo sulla tabella di marcia così passai rapidamente il rifugio, e poco dopo fui rapito da uno spettacolo mozzafiato. Davanti ai miei occhi l’infinito blu cobalto del cielo, tutt’attorno le colline dalle differenti tonalità che l’Islanda concede generosa, due vulcani ed un ghiacciaio che gli correva in mezzo.
Era surreale così come lo era il fiume che partendo dal ghiacciaio mi passava accanto. Per attraversarlo, un ponte in legno che non aveva un aspetto rassicurante. Ma l’unico modo quindi per quanto titubante, vi passai sopra. Ormai la stanchezza iniziava a farsi sentire nuovamente e mi resi conto che stavo rallentando il passo. Era tempo di una pausa pranzo, e vista la situazione, il mio panino fu molto utile. Terminata la pausa mi rimisi in marcia rendendomi immediatamente conto che era davvero tardi: mancavano ancora cinque chilometri ed erano circa le 23.00. Così decisi di guardarmi intorno per piantare la tenda accorgendomi, ahimè, che non sarebbe stato facile dato che il paesaggio era pieno di rocce vulcaniche. Eppure il suono di un piccolo ruscello attirò la mia attenzione; feci pochi passi e vidi che accanto alla riva c’era un posto perfetto dove accamparsi per trascorrere la notte. Questa volta la giornata era stata “asciutta” e cullato dal gorgogliare ininterrotto dell’acqua mi addormentai rapidamente. Il risveglio fu molto piacevole, quando misi il naso fuori dalla tenda mi ritrovai a condividere il terreno con un gregge di pecore. Osservai cautamente il loro comportamento e considerando che fossero le vere padrone di quella zona, mi affrettai a sgomberare il campo per lasciarle pascolare libere e indisturbate.
Giornata conclusiva
L’idea che avrei tagliato il traguardo era l’unico pensiero che occupava la mia mente.
Il problema fu che tra me e quel momento c’erano ancora ventotto chilometri e la foresta di Thorsmork da attraversare.Forte della speranza, con la musica nelle orecchie e l’incoscienza di chi non sa cosa lo attende mi vedevo già in cima al vulcano Eyafiallajokull affrontando la discesa verso la cascata di Skogafoss. Immerso nel paesaggio verde tipico del sud dell’Islanda, osservai per la prima volta una vegetazione insolita e mi stupii di quanto quest’isola fosse sorprendentemente ricca e splendente, ma allo stesso tempo anche tranquilla e tempestosa.
Fino a quel momento il mio passo svelto mi aveva scaldato in quella giornata molto arieggiata, inoltre avevo il vento a favore e lo sfruttai al massimo. Quel giorno incontrai diversi passanti che come me stavano percorrendo il cammino e scambiando quattro chiacchiere. Tutti si mostrarono sorpresi del fatto che fossi partito solo due giorni prima da Landmannalagur. Eppure il mio entusiasmo cozzò nuovamente contro un imprevisto: un altro fiume da attraversare, e ben più grande del precedente! Per qualche istante osservai coloro che si accingevano ad attraversarlo, notando che erano immersi fino alla cintola. Capii presto che questa volta dovevo affrontare una vera e propria sfida. Inizialmente lo feci con un pizzico di presunzione in quando, ormai, mi sentivo esperto, ma in realtà dovetti rapidamente ricredermi. Ero un novellino e tale apparivo a chiunque mi osservava annaspare in quelle acque gelide e profonde. Scivolai su un masso, immergendomi fino al collo e dando l’addio al tentativo di far restare asciutto lo zaino ed il suo contenuto prezioso. Riuscii solamente a salvare i pantaloni che tenenvo in mano: sollevando il braccio a mò di bandiera, li lanciai con forza sull’altra sponda e così furono salvi! Mancavano ormai pochi chilometri alla cascata che avrebbe segnato il mio traguardo. Il timido sole che era apparso mi stimolò ancora di più a raggiungere felicemente l’obiettivo. Con la musica nelle orecchie ed un sentiero in discesa davanti a me, la sitazuone migliorò decisamente. Ormai la velocità del mio passo era diventata una corsetta a tutti gli effetti, ed ecco finalmente, la cascata di Skogafoss davanti ai miei occhi!
Originata dal fiume Skogar proveniente dal ghiacciaio Myrdarsjokull, si gettava con un salto di oltre sessanta metri a terra, facendomi fare il pieno di emozioni. In un lampo realizzai che c’ero riuscito, ero arrivato e finalmente potevo ascoltare il suono fragoroso dell’acqua che scorreva ininterrotamente verso valle. Ero giunto in uno dei posti più belli che io avessi mai ammirato prima, ed era solamente merito delle mie gambe e della mia forza di volontà. Completamente sudato, con il fiatone e poche energie in corpo sentivo che una gioiosa fatica stava appagando i miei sforzi. Avevo percorso il Laugavegur trail. Mentre alzavo le braccia al cielo in segno di vittoria, il suono del cellulare mi riportò improvvisamente alla realtà. Erano i miei colleghi di lavoro che interessanti volevano sapere se fossi riuscito nell’impresa. Soddisfatti mi offrivano un passaggio di ritorno che acettai senza esitazione.
Mi sentivo vittorioso e fiero quindi potevo anche rientrare a casa seduto comodamente a bordo di una jeep. Eppure allontanandomi dalla grandiosa cascata di Skogafoss, già ne sentivo la nostalgia e un groppo alla gola comparve mentre la guardavo divenire sempre più piccola. La salutai silenziosamente, ma in cuor mio avrei voluto restare ad osservarla ancora, ancora e ancora…